La Parola che ritarda
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A volte la parola ritarda e non per responsabilità umana. Non sono gli uomini a ritardarne gli effetti, ma è proprio la libertà divina a ritardare la Parola. Gli uomini sono pronti ad ricevere quanto dirà il Signore, anzi, lo sollecitano, ma il Signore impone l’attesa nel silenzio. Nella Bibbia sono numerosi i passi in cui il Signore tace; tra tutti ce n’è uno che a mio parere presenta un silenzio molto pesante e drammatico.
Dobbiamo fare un salto a Gerusalemme al tempo del profeta Geremia per incontrarlo. L’epoca in cui è ambientato è quella dell’inizio dell’esilio Babilonese. Dopo la presa di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, una parte della popolazione viene deportata, quelli «di rango elevato», mentre restano a Gerusalemme i poveracci. Geremia rimane in mezzo al popolo (Ger 39,14). Nabucodonosor istituisce come governatore uno che era stato ministro del re Sedecia, un certo Godolia, che però, viene ben presto assassinato.
A quel punto tutti vanno da Geremia chiedendogli di pregare il Signore perché indichi dove andare e che cosa fare: una preghiera molto simile a certe preghiere che facciamo anche noi. Geremia risponde che pregherà e riferirà la risposta del Signore, senza nascondere nulla (Ger 42,4). Tutti allora affermano che obbediranno quale che sia la risposta del Signore (Ger 42,6). L’apertura del cuore dichiarata è immensa ma – questo è il silenzio su cui ci soffermiamo – tra il v. 6 e il v. 7 passano ben dieci giorni! Dice infatti il v. 7: «Al termine di dieci giorni la Parola del Signore fu rivolta a Geremia» (Ger 42,7). Come devono essere stati lunghi quei giorni! Giorni di attesa, trepidante e attenta al minimo segno. Giorni di inspiegabile silenzio. Perché la Parola si fa attendere? Perché, Signore, taci?
Se proseguiamo la lettura del testo, ci accorgiamo, però, che quei giorni di attesa nel silenzio non sono giorni di silenzio della Parola. Non si tratta di un ossimoro: mentre la Parola ritarda, in verità, fa già il suo corso e il suo ritardo fa emergere paure e resistenze, smascherando la presunzione di essere pienamente disponibili e aperti. Già questo è un effetto della Parola (Ebr 4, 12-13), che parla nell’attesa e nel ritardo (rispetto ai nostri tempi).
Quando finalmente dopo quei pesanti dieci giorni la Parola entrerà nelle parole di Geremia, Geremia non sarà creduto, gli sarà detto che proferisce menzogne (Ger 43,2), semplicemente perché la risposta del Signore è un invito a non fuggire in Egitto e a fidarsi di Lui, che promette: «Io sarò con voi per salvarvi» (Ger 42,11). La paura, però, ha il sopravvento.
Il silenzio imposto ai tempi di Geremia e a Geremia stesso, assomiglia fortemente a quella strana inattività di Gesù che «sentito che (Lazzaro) era malato si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava» (Gv 11,6). Anche Gesù con quei due giorni di silenzio ha fatto emergere la paura e le resistenze dei suoi discepoli. Se avesse detto immediatamente: «Andiamo!», nessuno avrebbe avuto da ridire, presi come si è dall’empatia del momento: se Lazzaro è malato, bisogna andare a imporgli la mano e guarirlo! Ma dopo qualche giorno, calata l’empatia, smorzata l’emotività, si è più lucidi, ma anche più difesi e meno disposti a consegnare la vita veramente...
Penso che i giorni appena passati, in cui tutto il mondo aveva gli occhi puntati su un comignolo e la mente intenta a elaborare scenari papali (in modo più o meno edificante), ci possano far rendere conto di che cosa scatena l’attesa...
La Parola che entra nel silenzio delle parole ci invita a interrogarci sulle nostre vere disposizioni e sulla nostra disponibilità ad accoglierla. Ci chiama, con silenziosa forte voce, ad entrare a nostra volta nel silenzio del dialogo della preghiera.
© 2013 Laura Invernizzi. Tutti i diritti riservati.
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