Donne nella Bibbia e periferia
Vorrei provare a ripercorrere alcune storie di donne che ho incontrato, accostandole a quelle di alcune donne presenti nella Bibbia, perché in questi racconti è raccolto tutto il dolore e tutto il coraggio di affrontarlo delle donne di allora come di quelle di oggi.
Molte donne che incontro nei primi giorni della loro detenzione portano sulle spalle il peso di una storia: sono donne che mi ricordano la donna curva (Lc 13,11). Spesso noi donne viviamo curve: sulle nostre spalle grava il peso di una storia, di esperienze pesanti, di amori sbagliati, di sacrifici fatti per qualcuno, o semplicemente per cultura; così mi ritrovo accanto a loro in ascolto di ciò che mi raccontano, raccolgo frammenti di storia e le vedo, col tempo, raddrizzarsi.
Durante la detenzione ci sono momenti in cui la vita sembra abbandonare qualcuna. Passo davanti alle celle e le ritrovo sempre in branda: “non ce la faccio, sto male...mi sento morire dentro…” sono le poche parole che riescono a dire. E la mente va all’emorroissa (Mc 5,25-28). Io non posso entrare in cella, perciò cerco di incoraggiarle a venire sulla soglia per un saluto ma non sempre ce la fanno e allora non resta che raggiungerle con lo sguardo, un sorriso, un piccolo incoraggiamento.
C’è la giovanissima che si ritrova già in una situazione di “morte”, come la figlia di Giairo (Mc 5,22-24.35-42), bloccata nel suo diventare donna anche dalla rabbia che porta dentro di sé. Una rabbia che mi consegna un giorno cantandomi una canzone rap scritta da lei. Ascoltare è un po’ come prendere per mano ed aiutare a rialzarsi.
Raddrizzarsi, rialzarsi, sono posture di vita che danno inizio ad un cammino di rilettura della propria storia, dei propri errori, è il momento in cui ci si mette a ricercare il senso più vero della vita, e ci si accorge di ciò che di importante si aveva e che si è perduto. Un po’ come la donna che spazza la casa per trovare la dragma perduta (Lc 15,8-9). Si accende una luce e si raccolgono dentro di sé frammenti di gioia.
A volte ci sono donne che hanno colloqui o incontri particolari e vivono il timore di non sapere cosa dire, a volte la paura di parlare… E questi momenti li ritrovo in Ester, nella sua preghiera (Est 4,17-5,1).
Come donne spesso il carcere fa sentire su di sé un senso di bruttezza. Una donna in particolare che mi dice: “mi sento brutta, abbandonata, non sento più Dio…” La ascolto, e in me risuonano le parole che lo sposo dice alla sposa nel Cantico dei Cantici (Ct 2,10-14). E poi le dico: “Vieni fuori dai tuoi pensieri negativi!” Lei mi risponde: “Ce la farò a ricostruirmi una vita!”. Le sussurro: “Lo stai già facendo”.
Potrei continuare ma mi fermo; termino dicendomi e dicendovi che la sofferenza di qualunque tipo e di chiunque (anche del reo), non ѐ spettacolo! Essa richiede discrezione e intimità. Richiede tenerezza. Che non è sentimentalismo, mollezza. Leggevo che la radice di “tenerezza” è la stessa di “tenacia”: è una capacità di stare, è una forza non violenta!
Tenerezza è non nascondersi le ferite, e guardarle con occhi di Dio.
Tenerezza è avvicinarsi con leggerezza e simpatia alla mia storia e alla storia altrui, rivisitarla per poter ripartire verso un di più di vita-bellezza-profumo.
E le donne sono capaci di racimolare quel poco che hanno per farne profumo di vita in un dono esagerato: ricordiamo il brano dell’unzione di Betania (Mc 14,3), le donne che vanno al sepolcro con gli aromi (Lc 24,1); e dal dono nasce una vita nuova.
Chicca in servizio presso C.C. S. Vittore (sezione femminile)
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