La dimensione pastorale dell'insegnamento della teologia in Università Cattolica
Mentre stavo terminando il dottorato a Roma, una delle prime università che mi ha contattato per offrirmi un insegnamento è stata l'Università Cattolica; nella sua offerta formativa, infatti, è integrato lo studio della Teologia in ogni corso di laurea, quale che sia l'ambito disciplinare di interesse.
Avevo già insegnato, ed era previsto che continuassi, in una facoltà ecclesiastica (la Facoltà teologica dell'Italia Settentrionale), che viene frequentata da coloro che sono interessati all'approfondimento teologico e che, almeno in parte, conoscono già il linguaggio della disciplina e della fede. Insegnare Teologia a giovani, che stanno studiando altre discipline, che non hanno uno specifico interesse per la teologia, che spesso sono digiuni del linguaggio della fede o conoscono quello di altre religioni, mi è parso subito una bella sfida, che mi avrebbe costretto a non dare per scontato nulla, a rendere ragione della fede, a trovare le forme e i linguaggi migliori per incontrare i giovani.
Alla prima lezione in aula c'era una studentessa; «una» inteso non come articolo indeterminato (una tra tante), ma come numero cardinale (una sola e basta). Ora coloro che frequentano i miei corsi sono parecchie centinaia di giovani. Dedico a loro, che tanto hanno contribuito alla conformazione attuale dei miei corsi, queste riflessioni.
Gli insegnamenti di Teologia sono una peculiarità dell'Università Cattolica. La loro esistenza è nota a chi fa parte in varia veste della comunità universitaria (studente, docente, personale), ma è nota anche all'esterno. Era noto anche a me, che, come studente, non ho frequentato la Cattolica (anche se in famiglia era una tradizione).
Quello che non sapevo (nonostante sia stata a lungo cultore della materia di un'altra docente) e che ho scoperto con stupore, meraviglia e gioia, al colloquio con Mons. Giuliodori (assistente ecclesiastico dell'UCSC) previo al conferimento dell'incarico della docenza, è che l'insegnamento della teologia in Cattolica si svolge su mandato ecclesiale. Questo è il punto da cui vorrei partire.
1. L'insegnamento della teologia in Cattolica è partecipazione all'azione pastorale della Chiesa
Benché "pastorale" sia un termine complesso e ricco di tante sfumature e diverse interpretazioni (ricordo un vecchio parroco che diceva convinto, e voleva convincere anche me, che «la pastorale è l'insieme dei compromessi personali»), parlando di "pastorale" non si può prescindere dal riferimento all'immagine sintetica del buon pastore (Gv 10, 11-18), che conosce le proprie pecore e per esse dà la vita ed è diverso dal mercenario, che ha a cuore solo il suo salario.
Nell'incontro iniziale di un seminario tenutosi tra i docenti, anche Mons. Delpini l'ha ricordato, invitandoci a non rinchiuderci nell'autoreferenzialità o in una professionalizzazione, che ignora di aver ricevuto un mandato e per chi è stato ricevuto. Al contrario, ha indicato come essenziale la «passione del docente» per i temi dell'umano e ha esortato a vivere l'insegnamento della teologia come atto ecclesiale e attuazione della missione.
Pur ritenendo imprescindibile che nell'azione pastorale ciascuno vigili sulle proprie disposizioni interiori e informi azioni e sentimenti a quelli di Gesù – anche nell'insegnamento –, non vorrei ora soffermarmi oltre su questo, ma offrire qualche altro spunto a partire dalla specificità dei corsi.
2. La cura dei giovani là dove sono
Dal momento che «non esiste Vangelo né azione pastorale senza riferimento intrinseco al contesto sociale-storico in cui si opera e alle persone concretamente esistenti» (R. Sala), cioè ai destinatari dell'azione ecclesiale, le prime considerazioni che vorrei proporre sono legate al tema della cura dei giovani là dove sono e alla peculiarità dei corsi di teologia.
È noto che da qualche anno la pastorale giovanile "tradizionale" vive qualche fatica, di cui non sta a me ora identificare aspetti e cause. È, infatti, evidente la disaffezione dei giovani rispetto agli ambienti che fino a qualche decennio fa svolgevano una grande opera formativa aperta a tutti, con bassissima una soglia d'accesso. Forse per un'appartenenza più stretta e identificata i movimenti non vivono questa crisi, ma parrocchie e oratori sono in sofferenza. A questo proposito, Christus vivit (n. 230) auspica una pastorale che abbia un altro stile, altri tempi, un altro ritmo, un'altra metodologia.
Già qualche decennio fa in Diocesi di Milano si era cercato di recuperare il tempo perduto con la pastorale universitaria, non solo in atenei, come la Cattolica, che hanno in questo senso una grande tradizione, ma anche in atenei "laici", statali o privati, cercando di collocare dei presidi pastorali nei luoghi in cui si muovono concretamente i giovani.
Nei dieci anni di pastorale universitaria che ho svolto in Università Bocconi dal 1998 al 2008, tuttavia, non ho mai visto, né mai la cappellania è riuscita a realizzare, qualcosa che avesse le potenzialità dei corsi di teologia in Cattolica. Amavamo parlare di una «pastorale delle occasioni all'incrocio dei saperi», dove l'occasionalità era frammentata e si giocava nella frequentazione degli ambienti, che sono teatro della vita universitaria, ma non nelle aule, se non rare volte. Pur cercando di arrivare a tutti, spesso i confini erano imposti dai limiti dalla rete delle relazioni che si riuscivano a creare attraverso quanti partecipavano alle attività della cappellania, che – tutto sommato, a parte qualche bella occasione di riflessione interdisciplinare, erano abbastanza tradizionali. Non era poco, ma era nulla al confronto della possibilità che i corsi di teologia in cattolica costituiscono.
Questi, infatti, fanno parte dell'offerta formativa: un'offerta fatta a tutti, anche a quelli che hanno altre visioni della vita, professano altre fedi o si dichiarano estranei all'orizzonte religioso; i corsi di teologia non sono connotati dall'occasionalità, ma dall'ospitalità: se a chi crede forniscono un approfondimento della fede, allo stesso tempo ospitano in una sincera ricerca della verità chi non crede o professa altre fedi. I corsi di teologia per il loro statuto di "corsi accademici tra altri corsi accademici" sono un luogo in cui quella «possibilità dischiusa alla nostra esistenza» (M. Epis) che è la fede è offerta a tutti.
In questo senso, i corsi di teologia sono uno spazio inclusivo e una testimonianza del fatto che «tutti i giovani, nessuno escluso, sono nel cuore di Dio e quindi anche nel cuore della Chiesa» (Christus vivit, n. 235), che li accompagna e stimola a porsi le domande più profonde, confidando nella fantasia dello Spirito Santo che agisce come vuole.
3. Una pastorale giovanile popolare
Nei corsi di teologia c'è posto per ogni tipo di giovani e non è necessario che uno accetti gli insegnamenti della Chiesa per poter partecipare. L'obbligatorietà (non della frequenza ai corsi ma dell'esame) senza esonero (a differenza dell'IRC nella scuola) fa sì che i corsi di teologia abbiano alcune delle caratteristiche indicate in Christus vivit come proprie di una «pastorale giovanile popolare», che viene contrapposta in quel documento a «una pastorale giovanile asettica, pura, caratterizzata da idee astratte, lontana dal mondo e preservata da ogni macchia» (Christus vivit, n. 232), che riduce il Vangelo «a una proposta insipida, incomprensibile, lontana, separata dalle culture giovanili e adatta solo ad un'élite giovanile cristiana che si sente diversa, ma che in realtà galleggia in un isolamento senza vita né fecondità» (ivi).
«La pastorale giovanile – avverte sempre Christus vivit –, quando smette di essere elitaria e accetta di essere "popolare", è un processo lento, rispettoso, paziente, fiducioso, instancabile, compassionevole» (Christus vivit, n. 236).
Personalmente ho in mente come fosse ieri il momento in cui, ero nell'aula G013 (Giovanni XXIII) ho sentito quella compassione che mi ha fatto guardare agli studenti in modo diverso; quella compassione che il Vangelo ci dice essere anche la scaturigine dell'insegnamento di Gesù verso la folla. Penso che qualcosa del mio insegnamento sia cambiato da allora e – senza perdere la scientificità che costituisce l'altro versante della peculiarità dei corsi ma anche della mia identità – esso sia diventato più attento alla dimensione esistenziale degli studenti e alle loro domande, modulando i contenuti delle lezioni in modo che fosse più esplicito il punto di incontro con l'umano in tutte le sue dimensioni.
Nei loro specifici contenuti, i corsi di teologia sono uno dei luoghi in cui è possibile realizzare in università l'uscita missionaria della comunità cristiana, chiamata a essere «Chiesa in uscita», secondo le linee operative espresse in Veritatis Gaudium n. 4 e riprese in Christus Vivit n. 222: «l'esperienza del kerygma, il dialogo a tutti i livelli, l'interdisciplinarietà e la transdisciplinarietà, la promozione della cultura dell'incontro [...], e anche la capacità di integrare i saperi della testa, del cuore e delle mani».
I corsi sono una opportunità per affiancarsi a giovani che stanno ampliando le loro conoscenze, nutrendo la loro intelligenza, allargando la loro comprensione della realtà; sono un'opportunità per ascoltarli (ogni domanda dice molto più di quello che chiede) e per offrire loro un annuncio della Parola incarnato (che spesso è primo annuncio «senza presunzione e senza fare proselitismo», Christus vivit, n. 235), che illumini, interpreti, dia un ulteriore sguardo che stimoli a una riflessione; esigono che si presti attenzione e cura alla comunicazione, perché le parole non restino sterili.
È bello quando, dopo qualche anno, qualche studente scrive, perché trova in altre discipline qualcosa che "ha ricordato" quanto, visto a lezione un tempo, sprigiona ancora la sua fecondità.
Una parola va detta anche sugli esami, che diventano un momento di scambio in cui gli studenti non ripetono solo dei contenuti, ma dicono di sé, delle loro sintesi, delle loro domande. Nel caso dei non frequentanti, gli esami sono, tra l'altro, l'unico momento di incontro ed è un vero peccato che i grandi numeri (almeno di chi ha corsi in sede) spesso mortifichino questa possibilità, costringendo a tempi contingentati per ciascuno.
Gli esami sono un momento prezioso, perché a lezione con centinaia di studenti in aula non è possibile avere una relazione personale con ciascuno, né dar loro la parola, come si vorrebbe. In questo senso la didattica digitalmente aumentata ha dato una chance all'interazione e alla partecipazione, perché via chat (con più di 250 partecipanti video e microfono degli studenti sono bloccati di default e non possono essere usati) è stato possibile agli studenti scrivere domande e riflessioni e a me leggerle durante la lezione, rispondere o integrarle nel discorso. Mi nasce dal cuore però una perorazione affinché sia diminuito il tetto massimo degli iscritti ai corsi, che probabilmente non penalizza la dimensione scientifica se alto, ma penalizza molto la dimensione pastorale.
4. Dimensione pastorale e dimensione scientifica
L'ultima provocazione che vorrei lanciare (ma potrebbe essere anche la prima per importanza) è la seguente: la dimensione pastorale dell'insegnamento della teologia in Università Cattolica è strettamente legata alla sua dimensione scientifica e al suo rigore. Questo non significa incomprensibilità o – per usare ancora un'espressione di mons. Delpini – impiego di un «linguaggio fossile», perché è essenziale curare la forma comunicativa, ma significa possibilità di incontro, mediazione dei contenuti e convergenza sui temi dell'umano.
Certamente non è nostro compito formare futuri teologi. Chi vorrà approfondire in questo senso la disciplina, potrà frequentare le facoltà di Teologia e con buona probabilità non avrà scontato nessun credito per aver sostenuto alcuni esami di teologia in Cattolica. Il nostro insegnamento, però, viene proposto in una università tra gli altri insegnamenti dell'università stessa e il rigore e la scientificità sono necessari per interagire con le altre discipline.
Ma non solo. Questa interazione ha anche una ricaduta pastorale. Innegabilmente corsi di teologia per qualcuno corrisponderanno solo all'apprendimento di alcune nozioni imparate quasi a memoria per superare l'esame e dimenticate subito dopo, ma per molti sono occasione per conoscere (per chi professa un'altra fede, per chi non crede), un'occasione per riflettere, un'opportunità per iniziare a formarsi uno sguardo di sintesi, o per far crescere e, per così dire, "aggiornare" la propria fede, che, magari, essendo rimasta ai ricordi e alle nozioni dell'infanzia e non essendo per questo in grado di dialogare con le conoscenze di altre discipline che, al contrario, sono state alimentate e fatte crescere fino al livello universitario, era accantonata e considerata inutile, ma riemerge come possibilità.
Laura Invernizzi
Docente a contratto presso l'università Cattolica del Sacro Cuore
Docente di Teologia Biblica ed Esegesi presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale
e l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano
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