Letture estive: Aveva ancora uno, il figlio amato
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La parabola dei vignaioli è presente in tutti e tre i vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca). Poiché nella lettura delle parabole è sempre importante comprendere il processo dialogico in cui sono inserite, per poterne cogliere la dinamica comunicativa, focalizziamo l’attenzione sulla lezione del vangelo di Marco, per meglio coglierne il contesto narrativo e le peculiarità.
La parabola è raccontata da Gesù nei giorni precedenti la Passione, il terzo giorno del suo ministero a Gerusalemme, al Tempio, durante una disputa con sommi sacerdoti, scribi e anziani sull’autorità: «Con quale autorità fai queste cose?» (11,28), chiedono; in un certo senso la parabola risponde alla loro domanda, invitando a trarne le conseguenze.
1 Si mise a parlare loro con parabole: «Un uomo piantò una vigna, la circondò con una siepe, scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 2Al momento opportuno mandò un servo dai contadini a ritirare da loro la sua parte del raccolto della vigna. 3Ma essi lo presero, lo bastonarono e lo mandarono via a mani vuote. 4Mandò loro di nuovo un altro servo: anche quello lo picchiarono sulla testa e lo insultarono. 5Ne mandò un altro, e questo lo uccisero; poi molti altri: alcuni li bastonarono, altri li uccisero. 6Ne aveva ancora uno, un figlio amato; lo inviò loro per ultimo, dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. 7Ma quei contadini dissero tra loro: “Costui è l'erede. Su, uccidiamolo e l'eredità sarà nostra!”. 8Lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna. 9Che cosa farà dunque il padrone della vigna? Verrà e farà morire i contadini e darà la vigna ad altri. 10Non avete letto questa Scrittura: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d'angolo; 11questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi?». 12E cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti (Mc 12,1-12)
«Un uomo piantò una vigna…» (Mc 12,1): la descrizione dei gesti del padrone della vigna riprende quella del Canto della vigna del profeta Isaia (Is 5,1-2). Prima di piantare una vigna è necessario preparare il terreno, liberarlo dell’abbondanza di sassi e dalle erbe, ed eventualmente livellarlo. Tutto questo lavoro giustifica le attese dei frutti da parte del proprietario. Come in ogni luogo, anche in Palestina le vigne sono protette: la siepe serve per tenere lontano gli animali; la torre nel mezzo è il luogo da cui i sorveglianti possono osservare o anche rifugiarsi: quando l’uva incomincia a maturare, i contadini vi si stabiliscono per controllare, notte e giorno il raccolto, perchè non entrino in azione predatori voraci (animali o uomini). Il torchio, formato da due vasche in pietra concave, una superiore e una inferiore, collegate fra loro con un condotto di pietra, viene predisposto per torchiare in locol’uva e ottenere vino, senza avere l’onere e i rischi del trasporto. Inoltre, il fatto che il padrone della vigna affitti la vigna a contadini e vada lontano è del tutto normale nel sistema economico greco-romano. Tra l’altro il padrone deve aspettare ben cinque anni («al momento opportuno», v. 2), prima di pretendere una parte del raccolto: nei primi tre anni i frutti non si possono mangiare (sono «incirconcisi» dice Lv 19,23, non ancora consacrati al Signore), mentre il raccolto del quarto anno è destinato a Dio (Lv 19,24).
Fatte queste premesse, leggiamo le due sequenze di cui è composta la parabola. Nella prima sequenza (vv. 2-5) l’uomo manda i servi dai vignaioli. Il primo servo viene bastonato e rispedito a mani vuote (vv. 2-3); il secondo servo viene colpito alla testa e oltraggiato (v. 4) il terzo servo viene ucciso (v. 5a); numerosi altri servi vengono bastonati e uccisi (v. 5b). Il padrone, quindi, fa diversi tentativi: tre invii sono numerati (individuali), il quarto invio riguarda «molti altri» e non viene specificato se siano mandati in gruppo o a uno a uno. Nella sorte incontrata dagli inviati, tuttavia, si vede chiaramente un crescendo che conduce a uccisioni plurime. Fin qui la storia sembra essere quella della fedeltà di Dio e della infedeltà di Israele. Matteo (21,33-44), probabilmente pensando ai profeti, parla di due gruppi di inviati, che vengono anche uccisi e lapidati e Luca parla di tre invii singoli, senza parlare di morte.
La seconda sequenza presenta, invece, l’invio del figlio amato, un invio motivato da una riflessione («Avranno rispetto per mio figlio!», v. 6); il ragionamento (abbastanza strambo! Come possono immaginare di subentrare nell’eredità?) dei vignaioli (v. 7) e l’uccisione del figlio buttato fuori dalla vigna (v. 8). Il fatto che il cadavere sia buttato fuori dalla vigna è una sorta di supplemento di ingiuria e disonore oltre la morte. Poiché nella sequenza di invii precedente già era stato riferito della morte degli inviati, il lettore comprende che la novità, il «salto di qualità», di questo nuovo invio sta non nella sorte peggiore (come potrebbe accadere in Luca), ma nell’identità del nuovo inviato. Non è più un servo, ma è il figlio! Anzi, di più: è il «figlio amato» (particolare di Marco e di Luca). Ora, nel vangelo di Marco si è già trovata questa locuzione, in bocca a Dio, nei racconti del battesimo (1,11) e della trasfigurazione (9,7). Per il lettore, quindi, c’è un sovrappiù di senso nella parabola. Ma per gli interlocutori di Gesù?
La domanda diretta di Gesù, posta al culmine del racconto, rompe la narrazione. Questa parabola, come tante, non è finita, è aperta. La domanda di Gesù suggerisce di guardare al futuro («Che cosa farà il padrone della vigna? v. 9) e facilita l’accostamento tra quanto è stato narrato e la realtà focalizzando l’attenzione sul padrone della vigna e sulla sua reazione. Ma Gesù non ottiene risposta e continua a parlare: «Verrà e farà morire i contadini e darà la vigna ad altri» (v. 9): è la conseguenza logica del racconto. Sembra che Gesù dia voce alla risposta che i suoi interlocutori non riescono a dare (cf. la versione parallela di Mt); forse, proprio perché hanno capitoessi non parlano. Il racconto assicura che hanno capito che la parabola è detta a loro (v. 12) e quella conclusione sospesa nel futuro del verbo («Che cosa farà?») diviene così un avvertimento e un invito a cambiare, prima che venga realizzata.
Non sappiamo, però, se la comprensione degli interlocutori di Gesù sia così profonda da arrivare a cogliere la rivelazione che la parabola contiene. «Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato autorità per far ciò?» (Mc 11,28) avevano chiesto a Gesù: con questa parabola Gesù ha risposto. Il culmine della narrazione, infatti, non sta nelle uccisioni plurime. Il culmine è nella natura dell’ultimo inviato che è il figlio amato, cioè nella rivelazione dell’identità di Gesù come figlio di Dio.
Laura Invernizzi, Ausiliaria diocesana
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