Il dono di una presenza in periferia
Celebrare un anniversario di presenza come Istituto in una parrocchia dice una stima e una fiducia reciproca tra l’Istituto che iniziò qui la sua presenza 20 anni fa, e la comunità cristiana che espresse a suo tempo il desiderio di avere qui la presenza di una comunità religiosa che si prendesse cura del cammino di fede della parrocchia. La nostra presenza in una comunità è sicuramente preziosa dal punto di vista del “fare”, ma ancora più importante è l’esserci: il desiderio che mi ha sempre condotto nelle comunità in cui mi sono trovata è proprio quello di mettermi accanto alle persone per aiutarle a scoprire quel tesoro che ciascuno ha dentro, anche se a volte non si vede, che è Gesù.
Allora, e soprattutto oggi, pensando al mio essere mandata in una periferia, mi viene in mente quella zona geografica della Palestina chiamata Galilea delle genti.
Nel Vangelo la Galilea è il luogo d’inizio e il luogo di fine, è una terra di frontiera, una zona di transito dove si incontrano persone diverse per razza, cultura e religione. La Galilea assomiglia al mondo di oggi, nel quale la compresenza di diverse culture chiede incontro e confronto. Anche noi siamo immersi ogni giorno in una “Galilea delle genti”, e in questo tipo di contesto possiamo spaventarci e cedere alla tentazione di costruire recinti per essere più sicuri, più protetti.
Partendo dalla Galilea, Gesù ci insegna che Dio preferisce partire dalle periferie, dagli ultimi, per raggiungere tutti. Ci insegna che nessuna periferia - nemmeno dove non si attende più nulla e non si ha nemmeno la forza di cercare - debba essere esclusa dalla sua misericordia e dalla sua salvezza.
Parlando della Chiesa in uscita Papa Francesco scrive: “Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata. Uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo” (Evangelii gaudium, 20). Questa citazione ci dice che la Chiesa, cioè noi, è chiamata a stare in mezzo alla gente, non a separarsi e chiudersi in un fortino.
Ci dice che, se non stiamo nel mezzo, la luce che è Cristo non potrà illuminare chi abita “in regione e ombra di morte”.
Ci dice che in ogni luogo e in ogni spazio, là dove abita e vive la gente, quale che essa sia, lì la Chiesa non può mancare di stare.
Gesù comincia la sua missione non solo da un luogo decentrato, ma anche da uomini “di basso profilo”. Per scegliere i suoi primi discepoli e futuri apostoli Gesù si rivolge a persone umili e semplici; va a chiamarli là dove lavorano come pescatori, sulla riva del lago. Li chiama, ed essi lo seguono, subito. Lasciano le reti e vanno con Lui: la loro vita diventerà un’avventura straordinaria e affascinante.
Per più di diciassette volte Papa Francesco parla di periferie esistenziali: sono i luoghi in cui “c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni” (Messa Crismale 28 marzo 2013); sono i luoghi abitati “da tutti coloro che sono segnati da povertà fisica e intellettuale”; sono i luoghi dove sta “chi sembra più lontano, più indifferente” (Omelia nella giornata mondiale della gioventù, Rio de Janeiro, 28 luglio 2013), dove “Dio non c’è” (Visita pastorale ad Assisi, Incontro con il clero e i religiosi, 4 ottobre 2013); sono “le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo” (Esortazione apostolica Evangelii gaudium 20).
Le periferie sono quindi tante e diverse, per questo ci interrogano. Attraversarle è un’esperienza intima, profonda e personale, che chiede tempo e rispetto.
Proprio come ha fatto Gesù: egli incontrava uomini e donne – ci raccontano i vangeli – sovente anonimi. Persone che egli “vede”, “guarda” nel suo vivere quotidiano, nel suo camminare per le vie della sua terra. E proprio da questo vedere, guardare, nasce la prossimità. La periferia spirituale o esistenziale in cui l’altro abita è scoperta da Gesù nell’incontro, non da lui prestabilita. Incontro che lo obbliga ad una riflessione personale, ad un’interiorizzazione profonda, ad una valutazione precisa. Così deve essere per noi.
Siamo un popolo che ha camminato, cammina e camminerà sempre nelle tenebre… ma queste tenebre – dato positivo – non potranno inghiottire la Luce perché è proprio lì che la Luce splende.
Che cosa significa per me essere donna nella periferia?
Il mio vivere in mezzo alla gente mi porta a recuperare il valore delle relazioni, a vivere un tempo “con” e non un tempo “per” (fare, organizzare); è riconoscere il valore della pazienza del seminatore, sapendo che qualcun altro potrà vedere i germogli di ciò che è stato seminato; mi chiede di avere uno sguardo pieno di misericordia, che non giudica, ma ama, cercando di vivere quella caratteristica tipicamente femminile, materna, che è il prendersi cura con quella tenerezza che solo una mamma può donare; mi domanda un ascolto attento, capace di portare nel cuore le ansie e i desideri della gente.
Paola Gervasi
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