QUARESIMA III - Prima della pioggia
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Il capolavoro del regista macedone Milcho Manchewski è un film che dà a pensare. Altamente simbolico, avvia col telespettatore una fitta metacomunicazione, fatta di opposizioni, contrasti, paradossi, allusioni. Tre episodi (Parole, Volti, Immagini), tre momenti di vita, tre morti si intrecciano, grazie a numerosi rimandi interni, in un contesto di violenza che sembra togliere spazio alle scelte individuali. Gli episodi non vengono presentati in ordine cronologico; non tutto si compone, a partire dalle incongruenze nella successione del tempo, che interrogano e lasciano spazio a ipotesi e interpretazioni. «Il cerchio non è rotondo», viene ossessivamente ricordato. La figura di Aleksander, macedone, crea una congiunzione tra i tre episodi, facendo vedere allo spettatore il dramma dell’odio religioso, dell’odio razziale e dell’insensatezza della guerra. Aleksander conosce la guerra, anzi, conosce molte guerre e ne porta perfino i segni sul corpo. È un fotoreporter di guerra famoso, che ha vinto anche il premio Pulitzer, ma che – a un certo punto – decide di ritirarsi nel villaggio natio, in una sorta di ripensamento sulla sua vita, che ha fatto della guerra la sua fonte di guadagno e di celebrità («la mia macchina fotografica aveva ucciso un uomo»). Tornando, però, trova tutto cambiato: tra macedoni e albanesi un tempo in pacifica convivenza, ormai ci sono diffidenza, odio e semi di morte.
Aleksander, grazie al suo statuto che ne fa ad un tempo un fratello e uno straniero, è l’unico che riesce ad entrare nei villaggi degli uni e degli altri ed è l’unico che riesce a non farsi trascinare dal solo richiamo di sangue nel cerchio di un odio irriflesso. Egli vede, con una lucidità che altri non hanno, l’assurdità della guerra.
Ma ad Aleksander non basta più vedere, egli vuole «prendere posizione», perché, come recita un monaco, «il tempo non aspetta» e quando i cugini gli porgeranno le armi per combattere i vicini albanesi, amici diventati nemici, le rifiuterà. Aleksander, che guardava il mondo attraverso l’obiettivo della sua fotocamera, giungerà a decidere di entrare nella storia, nel modo più radicale, mettendosi in mezzo, anche a costo della vita. L’unico cerchio rotondo, sarà quello dei fori dei proiettili che lo attraversano, mentre la pioggia attesa e finalmente giunta bagna il suo corpo come in un battesimo (quel battesimo – il suo – che scherzosamente Aleksander aveva detto essere il motivo del suo ritorno). Aleksander morirà ucciso dai suoi fratelli macedoni: egli dona la vita per salvare quella di una ragazza albanese figlia della sua vecchia fiamma e accusata di un fatto di sesso e di sangue. Nella concatenazione degli episodi, però, il telespettatore ha già visto la morte della ragazza, non per mano dei (nemici) macedoni per mano dei suoi (della ragazza) fratelli albanesi.
La scena finale del film, identica a quella iniziale, sembra dire che la storia non può essere cambiata, anche se lo spettatore lo spera. In realtà, però, le cose tornano, ma non nello stesso modo, infatti non tutto “quadra”, sconcertando lo spettatore: nella storia che sembra ineluttabile, viene immessa, dalla scelta di libertà di Alexander, già anticipata da quella di un altro personaggio (Kiril, che accetta di essere accusato di infedeltà alla castità per salvare la medesima ragazza), una nuova forza, quella dell’amore, del perdono, del dono della vita, capace di far immaginare altri sbocchi. I paradossi del film di Manchewski, squarciando la barriera del tempo, non definiscono l’assurdo, ma aprono al possibile della libertà. Il cerchio non è rotondo.
Laura Invernizzi – insegna Teologia Biblica
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