3. SAN GIUSEPPE: l'uomo riconciliato con la sua debolezza
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Credo non ci sia nulla di più evocativo e sintetico per parlare di riconciliazione che l’immagine del Padre misericordioso che tiene abbracciato il figlio tornato dopo un lungo vagare.
In quel silenzioso abbraccio che ciascuno – ne sono sicura – vede già davanti a sé se soltanto lo richiama alla memoria, c’è tutta l’essenza dell’Amore gratuito, di cui il perdono è il vertice più alto.
È l’Amore del Padre nei confronti del figlio che s’era perduto, certo; è l’amore del figlio che ritrova il legame costitutivo nei confronti del Padre; ma è anche amore del figlio per sé stesso, non possiamo negarlo!
Dentro quell’abbraccio sta la possibilità di ricominciare ad esistere da figli amati e amanti.
Se il figlio si fosse fermato a quel “Padre, non sono degno…” la sua esistenza avrebbe assunto tutt’altra piega: non figlio, ma servo!
Il Padre, però, lo conduce ad andare oltre; non lunghi discorsi, ma un gesto semplicissimo: un abbraccio che “contiene”, ridà confini, ridà i contorni della vera immagine a quel figlio perduto, ad ogni figlio perduto.
Fermarsi al “non sono degno” è forse una delle tentazioni più grandi della vita: pensare di non essere all’altezza di essere amati è quanto di più terribile e falso si possa affermare nel cristianesimo.
Se San Giuseppe si fosse fermato a quel “non sono degno”, se avesse fissato lo sguardo sulla sua debolezza anziché sulla grazia che gli veniva incontro, non avrebbe potuto accogliere il compito grande che gli veniva affidato dall’Alto, e non avrebbe contribuito alla storia della Salvezza, così come invece ha fatto.
Anche lui si è lasciato abbracciare, non nel suo ritorno, ma certo nel suo smarrimento di fronte alla sproporzione del compito che gli si parava davanti; ogni sera probabilmente si sarà raccolto in quell’abbraccio per attingere la forza della custodia di quel Figlio così diverso da ogni altro figlio, di quel Figlio che era presso il Padre, che era quando ancora nulla esisteva…
Anche noi abbiamo bisogno di raccoglierci in quell’abbraccio, soprattutto quando la nostra vita va in frantumi, quando le crepe dell’esistenza anziché di luce si riempiono di buio e di tristezza, quando stringiamo le mani per trattenere e ci troviamo a mani vuote… Quell’abbraccio riconciliante, al quale possiamo tornare ogni volta che abbiamo il coraggio di farci piccoli e di ridire “Perdonami, Padre…”, può ridare anche a noi, ogni volta, i contorni più veri della nostra persona: Figli, amati e perdonati, deboli sì, ma forti perché la nostra debolezza viene accolta e trasformata da quell’abbraccio. Con abiti nuovi e con l’anello al dito allora, possiamo rimetterci in piedi e proseguire il cammino con la dignità dei figli!
Guglielmina Scattolin
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